L’Opera del Duomo di Orvieto ha un’origine ecclesiastica, nascendo sotto l’egida del vescovo Francesco Monaldeschi e con il pieno favore di papa Niccolò IV, che pone la prima pietra della cattedrale nel 1290.
In un periodo di grande fervore urbanistico, riflesso di quella “costruzione politico-amministrativa” della città attuata alla metà del XIII sec. dal populus al governo, le aspirazioni degli orvietani, desiderosi di edificare una nuova chiesa cattedrale e sollecitati ad un mutamento del gusto artistico dalla presenza della corte pontificia (a partire da Innocenzo III nel 1216) e dall’apertura dei cantieri degli Ordini mendicanti, sembrano concretizzarsi, a partire dal 1280, col trasferimento del presule di Melfi ad Orvieto.
Dalla “fase preparatoria” della fabbrica (1284) fino al 1295 circa, il vescovo Francesco svolge infatti un ruolo di primo piano, sia nella predisposizione dell’area destinata ad ospitare il costruendo Duomo, sia nell’organizzazione tecnico- amministrativa del cantiere.
Egli stipula un accordo con i canonici per l’esproprio dei loro immobili, da demolire insieme alla vecchia cattedrale per edificare la nuova, acquista con le sue rendite personali o col denaro delle decime un complesso edilizio nella stessa zona ed inoltre si occupa della nomina del responsabile della fabbrica, della scelta delle maestranze e della determinazione dei salari.
Nel periodo delle origini l’Opera è inscindibile dal cantiere, con cui di fatto si identifica, e assume la fisionomia di un organismo piuttosto semplice amministrato da un rettore ecclesiastico, generalmente un canonico o un converso di un monastero, eletto a vita e denominato operarius. Egli si occupa della direzione tecnica della fabbrica esercitando un controllo costante sull’andamento dei lavori e, contemporaneamente, svolge anche “funzioni economico-finanziarie”, raccogliendo e amministrando i lasciti in favore della cattedrale.
Nella gestione del denaro derivante dalle donazioni private il responsabile del cantiere è probabilmente coadiuvato, fin dalle origini, da una o più persone laiche, primo segno del futuro inserimento dell’autorità secolare cittadina nella struttura dell’Opera.
Il ruolo di operarius, in questa prima fase, è ricoperto dal frate silvestrino Bevignate, documentato ad Orvieto fin dal 1291, personaggio noto nell’Italia mediana del XIII sec., vero e proprio riferimento per la committenza laica ed ecclesiastica e per le maestranze, tra le quali spicca la figura di Ramo di Paganello, responsabile artistico del cantiere orvietano.
Epoca di passaggio
L’edificazione della nuova chiesa cattedrale non resta a lungo un impegno esclusivamente ecclesiastico, ma assume ben presto la connotazione di “evento civico”, al quale il comune non rimane estraneo.
Benché siano documentati interventi del Consiglio Cittadino fin dal 1285, è solamente dieci o quindici anni più tardi che si verifica un’incidenza del comune nell’organizzazione del cantiere e, quindi, nell'”organigramma” dell’Opera. Inizialmente il potere laico si limita ad interventi tecnici e di sostegno nei confronti della fabbrica, fornendo personale specializzato (extimatores) per la stima degli alloggi dei canonici che dovevano essere abbattuti o semplicemente partecipando all’impresa con forniture di materiale, secondo una prassi già sperimentata per gli altri cantieri, soprattutto per quelli degli Ordini mendicanti.
Quando nel 1292 il governo popolare raggiunge la piena maturazione attraverso la nuova magistratura dei Signori Sette Consoli delle Arti, unico organismo esecutivo, riuscendo così ad attuare un controllo delle strutture politico- burocratico- amministrative della città, si fa sempre più forte l’esigenza di un elemento unificante, simbolo d’ identità e coesione cittadina. Nell’ottica tipica del c.d. cristianesimo civico, il Duomo, da riferimento devozionale, diventa anche espressione di appartenenza alla città di Orvieto, fonte di prestigio politico e di consenso popolare.
Contemporaneamente si verifica un processo d’assimilazione dell’Opera alle altre opere comunali, favorita dal trasferimento del vescovo Francesco Monaldeschi a Firenze (1295), a causa dell’interdetto scagliato contro Orvieto da Bonifacio VIII, ostile alla politica espansionistica del comune ai danni della Valdilago (territorio compreso tra il lago di Bolsena e Acquapendente sotto il domino della Chiesa).
Nel 1295 i Signori Sette, pur riconfermando fra’ Bevignate nel ruolo di operarius, introducono due o tre officiali del comune, in carica per sei mesi o un anno, denominati soprastanti (superstites), affiancati da un notaio; essi, dopo un breve periodo di confusione e interscambiabilità terminologica e, a volte, anche di ruoli, durato fino al 1300 circa, si occuperanno di questioni prettamente amministrative, limitando ai soli aspetti tecnici le competenze dell’operarius. Il passaggio dal rettore ecclestiastico, eletto a vita, ai soprastanti, nominati a tempo determinato dal comune, segna l’avvio del cambiamento dell’Opera.
Prima legislazione
La struttura approntata per l’Opera dai Signori Sette sullo scorcio del XIII sec. trova maggiore stabilità e articolazione nella delibera consigliare dell’agosto 1300, in cui vengono emanate vere e proprie norme per l’organizzazione della Fabbrica. Questa prima legislazione sancisce una cogestione, di fatto già esistente, tra vescovo, capitolo e comune, i quali si occupano, con pari autorità, della definizione delle cariche e degli aspetti contabili, ovvero: prelievo delle offerte per la cattedrale, raccolte in un’apposita cassetta (truncho), di cui tutti e tre hanno le chiavi, registrazione del denaro in tre distinti quaderni e pagamenti settimanali di salari e materiali.
La separazione delle entrate in moneta dell’Opera da quelle del vescovo, realizzata tramite la suddetta cassetta per le elemosine, costituisce la premessa di una gestione finanziaria autonoma, primo passo verso la futura acquisizione di “personalità giuridica”.
Per quanto concerne l’organico, la delibera del Consiglio Cittadino prevede la presenza dell’operarius, ora deputato ad una sorta di “caporalato” di cantiere, con un ruolo ridotto alla supervisione dei lavori e alla sollecitazione dei lavoranti all’operosità, e di due soprastanti, aventi il compito di visitare maestranze ed operai, correggendoli se necessario; ad essi si aggiungono due revisori dei conti per l’approvazione delle spese, un notaio, che registra le uscite quotidiane ed il camerario, economo della Fabbrica.
Superamento della crisi
Nei primi anni del XIV sec., i Signori Sette, facendo leva sulle difficoltà attraversate dal papato dopo la morte di Bonifacio VIII (1303) e lo stabilirsi della curia pontificia ad Avignone (1309), avviano una politica di laicizzazione dell’Opera, prima con un controllo maggiore sugli introiti, poi intervenendo anche nelle decisioni artistiche del cantiere.
Superato il periodo oscuro per la Fabbrica noto come “crisi generazionale” (1295-1304ca.) e caratterizzato da un arresto dei lavori per un mutamento della sensibilità artistica e del sostrato storico- culturale, le autorità comunali inseriscono una nuova figura, deputata alla direzione degli aspetti tecnico- artistici: l’universalis capud magister, ruolo affidato all’architetto senese Lorenzo Maitani prima del 1310; in questo stesso anno infatti, a conferma dell’incarico conferitogli, verrà concessa al nuovo capomaestro la cittadinanza orvietana, secondo una prassi diffusa tra le città comunali medioevali.
Rappresentando un elemento di raccordo tra il cantiere e l’Opera, il capomaestro colma il vuoto che si era creato, nel 1300, con la riduzione delle competenze dell’operarius e l’acquisizione di mansioni amministrative da parte dei soprastanti.
L’introduzione di questa figura, di nomina comunale, che trasforma il Duomo dal punto di vista architettonico e la Fabbrica sotto il profilo organizzativo, contribuisce a realizzare quel progetto di acquisizione dell’Opera, auspicato dai Signori Sette e destinato a durare oltre la fine del loro primo governo (1313).
Poche modifiche subirà infatti l’organigramma messo in piedi dai rappresentanti del potere esecutivo; documenti del 1315 testimoniano la scomparsa definitiva dell’operarius e la presenza di ben quattro soprastanti, uno per quartiere, a rappresentare il legame così forte tra la struttura territoriale e amministrativa della città e la sua cattedrale.
Il cantiere
Nel corso del ‘300 la Fabbrica diventa un importante punto di riferimento nella vita quotidiana cittadina come luogo di sperimentazione tecnologica e di centro economico, impiegando nel suo cantiere oltre duecento lavoranti, soprattutto locali.
All’edificazione della cattedrale prendono parte, infatti, categorie diverse di manodopera, da quella generica e giornaliera a quella fissa e altamente specializzata, inserita o meno in una corporazione. Molte sono le qualifiche, le professioni ed i mestieri (142ca, censiti tra 1321 e 1450); si tratta perlopiù di persone appartenenti al settore dell’edilizia, come muratori e manovali, ma anche di lavoranti senza una precisa qualifica professionale, chiamati a lavorare ovunque e con qualsiasi mansione; tra essi probabilmente sono compresi lapicidi e spaccapietre a cottimo, addetti alla preparazione delle pietre ricavate dalle cave.
Gli artigiani ed operai qualificati sono soprattutto fabbri, che producono e riparano gli attrezzi, segatori di marmo e legname, falegnami, che si occupano delle impalcature e dei ponteggi e vetturali, per il trasporto dei materiali.
Fino alla metà del XIV sec. è documentata anche la presenza delle donne, addette al trasporto della pietra e della terra.
Il problema dell’organizzazione del lavoro è fondamentale in un cantiere di così grandi dimensioni , dove coesistono lavorazioni diverse, ciascuna svolta, per motivi logistici, in luoghi particolari, che si configurano come “microcantieri”e richiedono competenze diverse.
Oltre al Duomo in costruzione, altri luoghi di lavoro sono ubicati nella piazza: una fornace per la cottura del vetro, posta tra la tribuna della chiesa e il Palazzo Vescovile, i laboratori di tarsie lignee e della fusione del ferro, al pianoterra del Palazzo Soliano, la fornace per la calcina ed il laboratorio del mosaico, al pianterreno del Palazzo dell’Opera e la loggia degli scalpellini e dei maestri della pietra, di fronte al Duomo. Da ricordare sono anche i cantieri extraurbani, sorti nei luoghi di estrazione dei materiali o lungo le vie di trasporto.
A coordinare i lavori del “grande cantiere” è chiamato il capomaestro, progettista, costruttore dotato di una naturale predisposizione per l’architettura; alcuni maestri o manovali svolgono invece il ruolo di capogruppo, occupandosi della riscossione e ridistribuzione del salario per ogni squadra di lavoranti.
Quella della squadra è infatti la forma tipica di organizzazione del lavoro, del tutto simile a quella delle corporazioni; il gruppo, con una sua gerarchia interna, trova i suoi elementi unificanti nel tipo di lavorazione o nell’uso di particolari strumenti e attrezzature oppure nei vincoli di parentela tra gli operai.
L’idea generale è dunque quella di un progetto unitario ben preciso, che, trovando nell’Opera un elemento di raccordo, si avvale di un lavoro d’equipe, ma al tempo stesso di una suddivisione di compiti e qualifiche che ricorda la distinzione delle arti nelle diverse botteghe della città, nel cui contesto il cantiere sembra inserirsi perfettamente.